Ieri è stata la prima vera giornata d’estate. Che bello. Il mio pensiero è andato a quegli stoici dell’arte che hanno scelto di vedere, anziché le sabbie di Fregene, Ladispoli o Maccarese (e finire intervistati sul TG “tette&culi” del caballero), l’ampliamento fresco d’inaugurazione del MACRO a Roma, il museo dedicato all’arte contemporanea progettato da Odile Decq. La gara tra MAXXI e MACRO, a chi la racconta più grossa, si gioca sull’offerta ai visitatori di arte pronto uso e consumo in modernissimi contenitori all’altezza (forse) del contenuto. Mi pare la tecnica con cui Mastrota vuole vendermi a tutti i costi un materasso o un set di pentole, come se non potessi più riposare o mangiare senza quelli. Caro, vecchio, italian style: basta convincere la gente che una certa cosa deve averla a tutti i costi ed è fatta. Ovviamente, dissuadendola dal chiedersi perché la vuole e se serve davvero allo scopo. La domanda sarebbe: perché devo andare a visitare questi posti? Beh, l’imperdibile incentivo (statale) offerto con rinnovato entusiasmo al pubblico è il singolare contenitore architettonico frutto delle meningi delle archistar e archistelline sulla piazza, strascico mai finito e sempre più distorto dell’”effetto Bilbao”. Qui scatta inevitabile la domanda qualunquista del rozzofilo: i pelati dentro a una lattina a forma di piramide di Cheope o di fiore di giaggiolo hanno un sapore diverso? Credo costerebbero solo di più. Io sono un po’ distratta: magno i pelati da 95 centesimi coop e il contenitore lo butto (nel cassonetto del riciclo). Dunque, l’entusiasmo per la lattina in sé non lo capisco tanto. La metafora metallara può sembrare esagerata, ma non lo è: se il MAXXI è la fiera del cemento armato levigato a svista, al MACRO la parola d’ordine è metallo smaltato. Nero o rosso, come le pentole degli anni sessanta (prima dell’invenzione del secolo: il teflon). Al centro dell’atrio d’ingresso campeggia un enorme lattina rossa con all’interno un auditorium, pure scarlatto. Boh, dopo due minuti che stai li (come ben sanno i fan della teoria dei colori) o ti vengono istinti omicidi (parlo per me) o pensieri porcografici (mi dicono). Meglio uscire. Le sale espositive, invece, sono abbastanza riuscite: le grandissime, adatte per opere di dimensione consistente (fantastiche le vele di Kounellis!) e le piccole per quelle più minute, di buona qualità. Anche questo è un aspetto interessante: l’arte ipercontemporanea, alla Pinault per capirsi, non è un granché rappresentata. Un bene dal mio punto di vista, dato che faccio una fatica bastarda con quelle opere. Reco meco il pregiudizio che spesso non ci sia tanto da capire. Basti l’inutile Cattelan, in rappresentanza del sindacato “se non ci fosse, non cambierebbe nulla”. A bomba, che mi perdo in chiacchiere. I diversi ambienti del MACRO, come nel MAXXI, sono collegati dalle solite scale volanti in acciaio, un su e giù non spiacevole, per quanto lo trovi abbastanza inutile se la promenade architecturale non è all’altezza. Si sale, sale, sale, ale, ale fino ad arrivare sulla terrazza.
Qui si fa una scoperta a dir poco curiosa: la progettista, in un singulto espressivo alla Tim Burton, ha previsto un’allegra batteria di funerei ombrelloni neri come le ali di un corvo. Pavimento, pareti, interno del bar: tutto nero. Ho visto l’opera il 30 maggio e già non si poteva starci un minuto, col simpatico sole romano che ti batte in testa. Posso immaginare come sarà il 31 luglio. Affollata, certo. L’interno del museo, costruito per la maggior parte in acciaio e vetro, era già una specie di forno. Come dice un’amica mia che vive a Roma, ora Aledanno avrà un buon motivo per aumentare le tasse, se si considera che il neonato capolavoro non può certo vivere senza aria condizionata. In compenso, un botto di soldi è stato buttato letteralmente nel cesso, visto che i bagni sono il vero coup-de-thêátre del museo. Al centro delle stanzette, tutte specchi e acciaio, campeggia una console che cambia colore esibendo la propria verve performativa (secondo la panzana del giorno ciò avverrebbe in relazione al sesso dell’utente, se maschio bianco, se femmina rosso, o simile). Nel cangiante monolite sono “scavate” delle vaschette per sciacquarsi le mani, con allegri zampilletti che escono dal lavandino-scultura. Le porte delle toilette sono pure d’acciaio, così come i wc. Giustamente una signora si chiedeva quanto costerà mantenerlo pulito (questione troppo triviale perché sia prevista dall’archistar) dato che quando è nella fase bianca, si vedono ditate ovunque. Per farne l’uso più prosaico ho tentato di chiudere la porta, ma senza risultato: la serratura è un robino minuscolo e non si riesce a girare. Una signora più fortunata di me l’ha chiusa, ma è rimasta prigioniera della lussuosa trappola hightech. È possibile che all’architetta che lo ha progettato non importi nulla se funziona? È un bagno, porca paletta, l’”arte” dovrebbe essere fuori. Ma credete c’erano quasi più visitatori che nelle sale. Arriviamo al vero problema. Peccato mortale. Si può perdonare tutto a questa struttura. Gli errori di composizione, il qualunquismo formale, persino il desiderio inconscio di lessare i visitatori in un bagno di sudore. Ma da un punto di vista costruttivo, l’opera è fatta male, ma male, ma talmente male che raramente ho visto una cosa del genere. Molte lastre della terrazza sono poggiate storte (e non apposta), con la guarnizione ciancicata che spunta tra le fughe. I telai di vetri e porte (a parte essere sporchissimi, non sono stati puliti neanche per la vernice), sono tutto tranne che montati precisamente. Le ringhiere cozzano malamente tra loro nei molti punti di cambio di direzione. In sintesi, quest’opera inaugurata la settimana scorsa sembra già vecchia di dieci anni. La parte sistemata qualche anno fa, pure della Decq, non è così disastrosa. Il problema, a naso, sembra essere il solito: il malato meccanismo delle aste al ribasso, che fa vincere l’appalto a ditte non in grado di eseguire il lavoro “a regola d’arte”. Un termine troppo demodè per avere ancora un senso nella nostra Italia lanciata a tutta birra nel business del fare cultura senza cultura.