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Il rosso e il nero (sindrome not included)

7 giugno 2010

Ieri è stata la prima vera giornata d’estate. Che bello. Il mio pensiero è andato a quegli stoici dell’arte che hanno scelto di vedere, anziché le sabbie di Fregene, Ladispoli o Maccarese (e finire intervistati sul TG “tette&culi” del caballero), l’ampliamento fresco d’inaugurazione del MACRO a Roma, il museo dedicato all’arte contemporanea progettato da Odile Decq. La gara tra MAXXI e MACRO, a chi la racconta più grossa, si gioca sull’offerta ai visitatori di arte pronto uso e consumo in modernissimi contenitori all’altezza (forse) del contenuto. Mi pare la tecnica con cui Mastrota vuole vendermi a tutti i costi un materasso o un set di pentole, come se non potessi più riposare o mangiare senza quelli. Caro, vecchio, italian style: basta convincere la gente che una certa cosa deve averla a tutti i costi ed è fatta. Ovviamente, dissuadendola dal chiedersi perché la vuole e se serve davvero allo scopo. La domanda sarebbe: perché devo andare a visitare questi posti? Beh, l’imperdibile incentivo (statale) offerto con rinnovato entusiasmo al pubblico è il singolare contenitore architettonico frutto delle meningi delle archistar e archistelline sulla piazza, strascico mai finito e sempre più distorto dell’”effetto Bilbao”. Qui scatta inevitabile la domanda qualunquista del rozzofilo: i pelati dentro a una lattina a forma di piramide di Cheope o di fiore di giaggiolo hanno un sapore diverso? Credo costerebbero solo di più. Io sono un po’ distratta: magno i pelati da 95 centesimi coop e il contenitore lo butto (nel cassonetto del riciclo). Dunque, l’entusiasmo per la lattina in sé non lo capisco tanto. La metafora metallara può sembrare esagerata, ma non lo è: se il MAXXI è la fiera del cemento armato levigato a svista, al MACRO la parola d’ordine è metallo smaltato. Nero o rosso, come le pentole degli anni sessanta (prima dell’invenzione del secolo: il teflon). Al centro dell’atrio d’ingresso campeggia un enorme lattina rossa con all’interno un auditorium, pure scarlatto. Boh, dopo due minuti che stai li (come ben sanno i fan della teoria dei colori) o ti vengono istinti omicidi (parlo per me) o pensieri porcografici (mi dicono). Meglio uscire. Le sale espositive, invece, sono abbastanza riuscite: le grandissime, adatte per opere di dimensione consistente (fantastiche le vele di Kounellis!) e le piccole per quelle più minute, di buona qualità. Anche questo è un aspetto interessante: l’arte ipercontemporanea, alla Pinault per capirsi, non è un granché rappresentata. Un bene dal mio punto di vista, dato che faccio una fatica bastarda con quelle opere. Reco meco il pregiudizio che spesso non ci sia tanto da capire. Basti l’inutile Cattelan, in rappresentanza del sindacato “se non ci fosse, non cambierebbe nulla”. A bomba, che mi perdo in chiacchiere. I diversi ambienti del MACRO, come nel MAXXI, sono collegati dalle solite scale volanti in acciaio, un su e giù non spiacevole, per quanto lo trovi abbastanza inutile se la promenade architecturale non è all’altezza. Si sale, sale, sale, ale, ale fino ad arrivare sulla terrazza.

Qui si fa una scoperta a dir poco curiosa: la progettista, in un singulto espressivo alla Tim Burton, ha previsto un’allegra batteria di funerei ombrelloni neri come le ali di un corvo. Pavimento, pareti, interno del bar: tutto nero. Ho visto l’opera il 30 maggio e già non si poteva starci un minuto, col simpatico sole romano che ti batte in testa. Posso immaginare come sarà il 31 luglio. Affollata, certo. L’interno del museo, costruito per la maggior parte in acciaio e vetro, era già una specie di forno. Come dice un’amica mia che vive a Roma, ora Aledanno avrà un buon motivo per aumentare le tasse, se si considera che il neonato capolavoro non può certo vivere senza aria condizionata. In compenso, un botto di soldi è stato buttato letteralmente nel cesso, visto che i bagni sono il vero coup-de-thêátre del museo. Al centro delle stanzette, tutte specchi e acciaio, campeggia una console che cambia colore esibendo la propria verve performativa (secondo la panzana del giorno ciò avverrebbe in relazione al sesso dell’utente, se maschio bianco, se femmina rosso, o simile). Nel cangiante monolite sono “scavate” delle vaschette per sciacquarsi le mani, con allegri zampilletti che escono dal lavandino-scultura. Le porte delle toilette sono pure d’acciaio, così come i wc. Giustamente una signora si chiedeva quanto costerà mantenerlo pulito (questione troppo triviale perché sia prevista dall’archistar) dato che quando è nella fase bianca, si vedono ditate ovunque. Per farne l’uso più prosaico ho tentato di chiudere la porta, ma senza risultato: la serratura è un robino minuscolo e non si riesce a girare. Una signora più fortunata di me l’ha chiusa, ma è rimasta prigioniera della lussuosa trappola hightech. È possibile che all’architetta che lo ha progettato non importi nulla se funziona? È un bagno, porca paletta, l’”arte” dovrebbe essere fuori. Ma credete c’erano quasi più visitatori che nelle sale. Arriviamo al vero problema. Peccato mortale. Si può perdonare tutto a questa struttura. Gli errori di composizione, il qualunquismo formale, persino il desiderio inconscio di lessare i visitatori in un bagno di sudore. Ma da un punto di vista costruttivo, l’opera è fatta male, ma male, ma talmente male che raramente ho visto una cosa del genere. Molte lastre della terrazza sono poggiate storte (e non apposta), con la guarnizione ciancicata che spunta tra le fughe. I telai di vetri e porte (a parte essere sporchissimi, non sono stati puliti neanche per la vernice), sono tutto tranne che montati precisamente. Le ringhiere cozzano malamente tra loro nei molti punti di cambio di direzione. In sintesi, quest’opera inaugurata la settimana scorsa sembra già vecchia di dieci anni. La parte sistemata qualche anno fa, pure della Decq, non è così disastrosa. Il problema, a naso, sembra essere il solito: il malato meccanismo delle aste al ribasso, che fa vincere l’appalto a ditte non in grado di eseguire il lavoro “a regola d’arte”. Un termine troppo demodè per avere ancora un senso nella nostra Italia lanciata a tutta birra nel business del fare cultura senza cultura.

Vita da teca

27 aprile 2010

Penso che tra qualche tempo gli storici (della storia, dell’arte, dell’architettura, della scienza, ecc), finiranno in una teca. Come le cose morte dentro i musei. Sempre più spesso mi accorgo di parlare una lingua comprensibile solo a quei pochi per i quali è pronta un’accogliente teca appena si decideranno a scendere dalla barricata dell’anticonformismo universitario ad oltranza su cui sono assisi. Resistete, resistete!!! Spesso è una sensazione affatto sconfortante. Oggi è uno di quei giorni. Come si può fare in modo che la cultura sopravviva? È un deserto. Ho sempre dato per scontato che chi vuole fare l’architetto veda la differenza tra Le Corbusier e Renzo Piano. Ora non ne sono più tanto certa. Uno può laurearsi senza aver letto Parole nel vuoto o, peggio, Vers un’architecture. Niente di male: non stiamo andando, ne andremo mai più, verso alcuna architettura. È solo parecchio triste. Non tanto per noi, che abbiamo avuto maestri che ci hanno dato occhi per vedere, quanto per chi non li ha e non li cerca, i maestri,  e sarà l’orgoglioso autore dei prossimi deturpanti scatoloni&scatoline che invaderanno ciò che resta del nostro martoriato paese. C’è posto per tutti in questo circo, purtroppo. In quanto alla storia, forse la troveranno morta di fame nel suo nascondiglio. Nessuno verserà una lacrima. La metteranno in una teca, come un fossile preistorico, chiedendosi: “a cosa sarà servita?”.

Scala reale

2 settembre 2009

Per chiudere la stagione delle gite (che sta diventando noiosa) devo segnalare un ultimo luogo, forse un pò lontano dai circuiti consueti, ma imperdibile  per chi ami la landart  (come dice il nostro amico Bosega). È il monumento ai 100mila caduti della prima guerra mondiale di Redipuglia, inaugurato nel 1938.

redipuglia 1

L’abilità di Giovanni Greppi, qui affiancato dallo scultore Giannino Castiglioni, di gestire l’estensione territoriale del monumento è strabiliante: come nel caso del Sacrario del Grappa, che rifà letteralmente la punta al monte, la pendice carsica viene rimodellata dall’architettura. Se da un punto di vista simbolico la formula progettuale è quella consueta per un sacrario, dall’antichità in qua (Palestrina? Tivoli? Walhalla? la scalinata implica l’ascesa, e quindi la progressiva purificazione del visitatore/penitente, fino all’ingresso al tempio sulla sommità e così via), la qualità del lavoro di Greppi nasce dal controllo simultaneo delle singole parti e dell’insieme, che è tutto dire a questa scala. redipuglia 2Una gerarchia monumentale, ma mai rigida, ottenuta con dei semplici, quasi impercettibili, cambi di assi e di quota. Solo percorrendo questo “cretto” cartesiano, ci si rende conto della sprezzatura che ne controlla le forme. Interessante anche  il museo ai piedi del complesso, zeppo di “cimeli” di guerra. Certi arnesi sembrano quelli delle giostre medievali. Che rovina, pensare quante ce ne sono ancora vive, di guerre. Sconvolge.

L’altro luogo che ho amato in questa estate che sta finendo (e un anno se ne va) è Brescia, una città che non conoscevo punto, piacevole da tutti i punti di vista. A parte piazza della Loggia, da rimanere senza fiato, capitelli brasciale vestigia romane o il duomo vecchio e nuovo, idem, un giro per il museo di Santa Giulia è l’equivalente di un viaggio nel tempo e negli spazi siderali. Un formula meno retorica non renderebbe l’idea delle meraviglie che trovate passando di sala in sala. A parte i musei romani, nei musei “normali” ci sono, generalmente, dei picchi di qualità, poi cose meno belle, poi qualche starlette sotto i riflettori, ecc. ecc. Qui ogni periodo è testimoniato da sculture, bassorilievi, pitture, oggetti vari di tale fattura ed eloquenza (fino a incappare, opssss, in Raffaello), da uscirne ubriachi. Citando quello di cui dirò prossimamente: le arti “per un cuore mortale sono un oppio divino”. Amen. Ovviamente anche la sede del museo è uno spettacolo: l’architettura del convento è un palinsesto di trame storiche (da Roma al Settecento, più o meno) che si svela al visitatore in continuazione. Sono stata assai fortunata, poiché resa edotta da uno studioso bresciano di perfetterrima fama, cui bascio le mani. Grazie assai.

W gli alpini!

ProgettAndo, la storia continua

13 luglio 2009

AndoInvertendo l’ordine degli addendi il risultato cambia. Anche se, come dice Antonello, “la matematica non sarà mai il mio mestiere”, persino io mi sono accorta che partendo dagli stessi presupposti di altri musei – tanti soldi, preesistenze impegnative, normative strette – Tadao Ando ha costruito per Pinault alla Punta della Dogana qualcosa di progettualmente intelligente, esteticamente piacevole, culturalmente necessario, economicamente vantaggioso, per la città e per il committente. Il nostro amico Bosega in uno dei commenti della scorsa settimana aveva messo il dito nella piaga: quale spazio per l’architettura contemporanea a Venezia? La storia è lunga assai. Senza star lì a scomodare Codussi o Sansovino e tutta la filippica sulla resistenza lagunare alle novità linguistiche provenienti da altri contesti (che è terreno, per me, inesplorato), basti ricordare gli esempi “illustri” del XX secolo: Wright e il Masieri Memorial, Kahn e il Palazzo dei Congressi, Le Corbusier e l’ospedale di San Giobbe. Personalmente, ringrazio gli dei che quest’ultimo progetto non sia stato edificato, anche se purtroppo la lettura del margine lagunare è comunque compromessa da quelle mostruose casacce rosa fatte da non so chi dello IUAV (studiate al corso di Composizione I, ho rimosso l’autore). Arrivando via ferrovia è la prima cosa che lo sguardo incontra, mentre dall’altra parte spunta un filotto di nuovi edifici e il grottesco palinsesto di piazzale Roma. Se pensiamo che in passato la prima immagine che un viaggiatore aveva di Venezia era dal Bacino Orseolo, c’è da riflettere sul problema, ovvio quanto irrisolto, delle “porte” urbiche nel XXI secolo. Retorica inutile, che chiudo qui, salvo rincarare la dose citando la frase vera del più pesantone dei poeti: “Venezia è un albergo, San Marco e senz’altro anche il nome di una pizzeria” (per fortuna, gli dobbiamo anche “Asia”, un incredibile ritratto sonoro, evocativo e filologico, di ciò che doveva essere una città bizantina. Costantinopoli o Venezia, uguale).

In Punta, Ando si è trovato in una condizione quasi ideale: nessuna necessità di intervenire sull’involucro dei magazzini – formalmente autonomo nella semplicità della composizione e del monumentale rivestimento in pietra d’Istria -, mentre all’interno la grande scala degli spazi, la materia viva dei mattoni rossi e il disegno classico delle capriate in larice a vista (che caratterizzano altri magazzini della lunga stecca), suggerivano quasi automaticamente un dialogo pacato ma deciso con i materiali della modernità. Ultimo e non trascurabile punto di forza, la grande quantità di finestre preesistenti che davano la possibilità di osservare il cuore di Venezia quasi a trecentosessanta gradi, da tre lati su quattro. Così è: attraversando le sale del museo, la presenza cangiante del paesaggio lagunare insegue il visitatore offrendogli un relax visuale pressoché ininterrotto da quelle cose brute di cui ho già scritto. Ando sceglie di schermare le porte e alcune finestre con semplici griglie metalliche a doppia trama, unite da grandi borchie, le stesse che Carlo Scarpa aveva disegnato nel 1957 per il negozio Olivetti nella Crosera di Piaza. I materiali adottati sono solo tre: cemento armato, acciaio, vetro. Pochi gesti (cenni, direbbe FDC) esatti bastano per cambiare affatto la gerarchia distributiva. L’introduzione di un soppalco, raggiungibile mediante due eleganti scale, sdoppia il percorso espositivo, mentre quattro monumentali lastre in cemento ritmate da minuscoli incavi circolari (trattato con la solita tecnica che ne rende la superficie grigioperla setosa, tanto da sembrare marmorino alla veneta) definiscono il centro del museo, costituito da un luminoso cortile interno sul quale affacciarsi dal piano superiore. Tutte le attrezzature di sicurezza (idranti, pannelli degli impianti, ecc.) sono denunciate con una segnaletica minuscola, ma ben visibile, fatta di micro_icone che distraggono piacevolmente l’attenzione del visitatore. Lo stesso vale per gli obbligatori portelloni di sicurezza, riconoscibili ma ben integrati nel contesto. Considerando, per contrasto, come sono trattati i dettagli e le dotazioni di sicurezza nell’Auditorium Paganini di Renzo Piano a Parma, che ho visto un un mese fa, mi viene un moto di rabbia. Allora penso, come spesso penso, che ci voglia molta più abilità, costanza e impegno a fare le cose male che a farle bene. A parità di soldi, sia chiaro. “Questa è l’Italia”, dice il luogo comune, non si può che rassegnarsi. Per fortuna, la Punta è territorio di Sarkozy e Carlà.

Senza raggiungere lo status di capolavoro, l’opera di Ando rasenta comunque l’eccellenza per ragioni evidenti, quelle che dovrebbero essere la regola di ogni buona architettura. O meglio, quelle che personalmente considero quando cerco di capire se esiste un pensiero architettonico in una combinazione di strutture e funzioni. Ebbene, nel museo veneziano il lavoro d’integrazione con le preesistenze è precisamente studiato; i percorsi e gli accessi agli spazi museografici sono chiari ma potenzialmente flessibili; gli apparati di sevizio (illuminazione, impiantistica, ma anche bookshop, bar) rispondono alle necessità senza interferire più di tanto con l’organizzazione compositiva. Insomma, è un’architettura che funziona (sembra) da ogni punto di vista. Senza farsi tentare dal clangore oramai consueto al linguaggio post-postmodernista (leggasi senza adoperare la solita scenografia con le solite ferraglie contorte, muri storti, patchwork di materiali messi a caso), Ando consegue un risultato ottimale mantenendosi fedele a una cifra linguistica messa a punto nel tempo, con lentezza. Un po’ noiosa, si. Senza sorprese, pure. Forse priva della freschezza di una ricerca progettuale in fieri. Ma esatta e coerente come poche cose che ho visto negli ultimi anni.

Questo è il dramma.